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The Strain: il morso epidemico del male

La serie televisiva di Guillermo Del Toro e Chuck Hogan: l’affresco di una nuova umanità – Un invito alla visione

The Strain - recensione

La cinematografia contemporanea non può non risentire dei tempi pandemici in cui siamo inseriti, come esseri umani, in quanto protagonisti di un pericoloso gioco alla sopravvivenza, fisica e cerebrale che fa dell’esistenza una folle corsa verso una sanificazione delle coscienze e dei corpi. In tale temperie, profetica è The Strain, la famigerata e straordinaria serie tv creata da Guillermo del Toro assieme a Chuck Hogan che segna un momento di estrema importanza tematica nel panorama cinematografico contemporaneo.

The Strain fa della narrazione un tessuto vischioso all’interno del quale i personaggi espiano un’esistenza in cui il contagio epidemico di cui si parla nella serie impone una riflessione intorno al momento letterario della metamorfosi: l’esperienza della mutazione dei corpi attraverso un germe vampirico deforma i corpi in perfetto stile Walking Dead, ma attraverso un’azione patogena che scatena una violenta apoteosi del male intesa come nuova normalità. L’esperienza della mutazione, all’interno della serie, rappresenta per i personaggi l’elaborazione di un percorso vitale irto di tensione in cui gli infetti non assumono semplicemente i pallidi ruoli di vittime di un punto culminante dell’esperienza umana attraverso una catabasi, non più zombie, ma vampirica. Il germe fa degli infetti le tristi figure di un destino che attende l’umanità. Se in The Walking Dead gli zombies sono elementi di un video-game in cui la sola cosa che conta sia la sopravvivenza di ciò che resta dell’umano, nella serie pensata dal genio di Guillermo Del Toro, invece, gli infetti sono elementi di una evoluzione tragica ed escatologica dell’esperienza umana.

The Strain – Il trailer (EN)

The Walking Dead vuole raccontarci la fine di tutto, l’ultimo atto, l’epilogo dissonante e splatter, i residuali brandelli dell’umana esperienza (nelle vittime e nei sopravvissuti). Negli zombies, d’altronde, l’umano non subisce una mutazione, bensì ritorna in vita con ciò che resta, con la spazzatura di una condizione che si fa cammino perpetuo, mulinare incessante, sonnambulo e funambolico. Non è un caso che gli zombies non stiano mai fermi, ma si muovono continuamente, in attesa di poter incontrare, nel loro percorso, qualche scampolo di vita da divorare. Gli zombies vivono (anzi, sarebbe più corretto dire: muoiono vivendo), pertanto, una condizione tragica che è metafora della nostra società dei consumi che – già a partire dal grande capolavoro di George A. Romero, La notte dei morti viventi del 1968, fino ad arrivare all’ultimo Survival of the Dead del 2009 che chiude il suo eterno percorso zombie – viene tematizzata attraverso una massificazione dell’umana specie votata al cibo, alla mutilazione, al fagocitare senza sosta per poter assicurare a se stessa il diritto alla sopravvivenza.

The Strain, di controcanto, svela ciò che è solo all’inizio di un processo evolutivo: l’umanità morsa dal germe distruttivo del male rappresenta un nuovo modello di società in cui vige una leadership di estremo carattere totalitario. Le vittime di tale epidemia vampirica si muovono in una New York City che tende ad assomigliare, nel corso delle quattro stagioni che scandiscono la narrazione, ad un alveare in cui i movimenti dei corpi, le metamorfosi e la loro esperienza fisica del contagio rispondono ad una sorta di Ape Regina che governa e regna nella nuova umanità generatasi dall’infezione. Il morso epidemico del male innesca un modello di vita che, nella teogonia creata dalle gotiche fantasie di Guillermo Del Toro – reduce dall’esperienza straordinaria de Il Labirinto del Fauno (2006) in cui il corpo umano, prima di ritrovare una sorta di condizione perduta, attraversa percorsi irti di dolore e sofferenza – assume le sembianze di una civiltà sepolta che, come i terribili tripodi che sbucano dal terreno nel bellissimo La Guerra dei Mondi di Steven Spielberg (2005), torna a colonizzare la Terra.

The Strain è, quindi, il racconto di un ritorno ad un antico male che è, in realtà, il germe di una nuova società che veicola le azioni umane, innesca quarantene, desta timori, smembra rapporti familiari e tende a fare delle proprie vittime i veicoli di una trasmissione che morde e inocula il germe di un dolore atavico. La vicenda narrata non è, semplicemente, una classica storia di sopravvissuti ad una catastrofe horror o Sci-Fi che possa ricordare, vagamente, opere quali: Virus Letale (Outbreak) di Wolfgang Petersen (1995), Contagion di Steven Soderbergh (2011) o il geniale The Bay di Barry Levinson (2012). Nella fantasia di Del Toro, i vampiri non sono ciò che resta dopo l’apocalisse, bensì essi rappresentano i nuovi modelli evolutivi di una società antica e votata al male che tenta una ri-colonizzazione del proprio spazio vitale: la città contemporanea intesa come catalizzatore della potenza infettiva.

Attraversare The Strain significa fare i conti con un futuro che ci attende e che fa del male non una degenerazione dell’esistenza, ma un’evoluzione che ha matrici antiche. Si dice che lo scioglimento dei ghiacciai stia riportando alla luce virus sempre più antichi di cui la medicina non ha esperienza diretta e conoscenze approfondite, pertanto ciò che sta lì a spiarci, da qualche parte nel futuro, non è altro che l’antico che si fa attesa, pelago, approdo, istante ultimo del nostro orizzonte d’attesa. Scrive, a tal proposito, Herbert George Wells:

“Alla fine del diciannovesimo secolo, nessuno avrebbe mai creduto che gli eventi della terra fossero avidamente e attentamente osservate da intelligenze superiori a quelle degli uomini e tuttavia, come queste, mortali; che l’umanità, intenta alle proprie faccende, venisse scrutata e studiata, quasi forse con la stessa minuziosità con cui un uomo potrebbe scrutare al microscopio le creature effimere che brulicano o si moltiplicano in una goccia d’acqua. […] Nessuno pensava minimamente che i più antichi mondi dello spazio potessero rappresentare un pericolo per gli uomini, o pensava ad essi soltanto per escludere la possibilità o anche solo la probabilità che esistesse sulla loro superficie una qualunque forma di vita […]”[1].           


[1] Herbert George Wells, La Guerra dei Mondi, Crescere Edizioni, Gazzada Schianno (VA), 2017

Autore articolo

Ivano Capocciama

Ivano Capocciama

Regista e insegnante

Insegnante di lettere, studioso di teatro, mi occupo di regia e drammaturgia. Il mio lavoro artistico passa attraverso la letteratura drammatica moderna e contemporanea, la storiografia teatrale europea, i Teatri Laboratorio, l’Antropologia Teatrale e, soprattutto, i rapporti tra drammaturgia e spettacolo. Dal 2004 collaboro con vari istituti scolastici e scuole di recitazione, in qualità di regista, insegnante di movimento scenico, training attoriale, pratiche di messa in scena e studi di arte scenica per cantanti lirici.

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