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Gender Health Gap: una violazione del diritto alla salute delle donne

Le donne nella ricerca scientifica e nelle sperimentazioni

Gender gap

di Valeria Nigro

I termini inglesi “gender gap” sono entrati con forza nel vocabolario italiano la cui traduzione letterale e di senso può essere “divario di genere”.

Si inserisce come una traduzione per cercare di italianizzare un concetto a cui molti nel nostro Paese sono ancora restii a credere. Si fa fatica ad ammettere che in molti campi gli uomini ricevano un trattamento di favore o, molto più semplicemente, sono gli unici ad essere presi in considerazione.

Il Gender Health Gap

Il termine “gender gap” può essere declinato in differenti concetti, come quello del “gender pay gap”, il fenomeno secondo il quale a parità di ruolo, esperienza e titolo di studio gli uomini tendono ad essere pagati di più. Un concetto che, negli ultimi anni, ha attirato molto l’interesse della sociologia, sfociando in diversi studi sulla materia.

Tra questi, tradotto in un report annuale, possiamo citare il “Global Gender Gap Report” che si impegna ogni anno a tirare le somme sui passi avanti (o indietro) delle politiche sociali attuate per arginare questo problema.

Particolarmente rilevante il report di quest’anno che, nero su bianco, finalmente dimostra come non solo la pandemia da Covid-19 abbia aggravato le già presenti asimmetrie tra generi, ma ne abbia create di nuove.

Nonostante le donne siano più numerose nelle posizioni di lavoro essenziali ed abbiano affrontato la pandemia in prima linea, sono state lasciate indietro anche nei piani di ripresa economici post-Covid19 definiti dai Paesi europei.

Gender Health Gap, che cosa significa

Quando parlo di Gender Health Gap, però, non mi riferisco alla poca presenza di dottoresse, infermiere o OSS, ma alla poca presenza delle donne nei protocolli di test clinici in corso in tutto il mondo.

Nel febbraio 2017 il Parlamento Europeo, accorgendosi di tale squilibrio, ha approvato una risoluzione sulla parità di genere nella salute mentale e nella ricerca clinica, spiegando come il concetto biologico di sesso si ripercuotesse sullo stato di salute di una persona e sul modo in cui dovrebbe venir medicalmente trattata.

La medicina, infatti, ha fin dalle sue origini messo l’uomo al centro dei suoi studi, relegando la ricerca sulla salute femminile solo quando correlata alla riproduzione.

In realtà con gli anni gli scienziati hanno potuto vedere e dimostrare che le differenze biologiche vanno oltre gli organi preposti alla riproduzione, ma portano a delle patologie specifiche che, tutt’ora, non hanno progetti di ricerca appositi.

L’uomo è lo standard

L’uomo, nelle ricerche scientifiche e nei test clinici, viene considerato lo standard a cui tutto può essere ricondotto. Scientificamente è come se si considerasse la donna come un “sottogruppo” della specie maschile.

Di conseguenza, le spinte di ricerca che mirano a studiare problematiche femminili sono, in qualche modo, considerate di nicchia. Come se le donne non rappresentassero il 51% della popolazione mondiale.

Il problema inizia sempre dalla testa

Solo per portare alcune considerazioni, nella ricerca pre-clinica (quella animale) molto spesso non si utilizzano in egual numero animali sperimentali maschi e femmine.

Come ci dice Rebecca Shansky, una neuroscienziata della Northeastern University di Boston, gli scienziati impegnati in sperimentazioni mediche tendono a preferire le cavie maschi. Questo perché si pensa che le variazioni ormonali delle femmine possano cambiare le sorti della ricerca stessa o rendere meno stabili le analisi. Teoria smentita nel 2014 in alcune ricerche scientifiche. I ricercatori hanno evidenziato come gli ormoni maschili, tra cui il testosterone, possano portare a cambiamenti repentini della chimica ancor più drammatici di quelli femminili.

I campi del Gender Health Gap

Il problema riguarda prevalentemente la farmacologia, ma anche esperimenti nelle neuroscienze, nell’immunologia, nell’endocrinologia e nella fisiologia, nei quali, come diretta conseguenza, si trascurano importanti differenze di effetto fra maschi e femmine.

Persino negli studi in vitro, ci dice questo report del CNR, è raro che venga trascritto se la linea cellulare utilizzata provenga da animali femmine o da maschi, rischiando così di non tenere conto di come tale differenza influenzi i processi biologici.

Nella ricerca clinica farmacologica non è adeguatamente presa in considerazione l’importanza della presenza di femmine, particolarmente negli studi di fase 1, ovvero in quelli che valutano la dose massima tollerata.

Tutto ciò risulta lesivo per le donne ammalate perché si presume che gli studi condotti prevalentemente sui soggetti maschili siano universalmente applicabili.

Le malattie cardiovascolari

Nonostante i tentativi di rendere la ricerca medica più inclusiva, al 2021 si riscontra ancora una importante sottorappresentazione delle donne in test clinici salvavita come quello per le malattie cardiovascolari.

Storicamente, le terapie farmacologiche per le donne sono state estrapolate in base ai dati maschili. Tuttavia, la ricerca ha indicato che le donne rispondono diversamente che gli uomini e potrebbero sviluppare gli effetti collaterali se si usano le stesse dosi di farmaco. I dati specifici per il genere sono essenziali per una cura ottimale.

Leslie Cho, MD, FACC, autore principale dello studio, direttrice del centro cardiovascolare delle donne e capo sezione di cardiologia preventiva e di ripristino cardiaco alla clinica di Cleveland.

Per lungo tempo, infatti, si è pensato che le donne non potessero soffrire di cuore (se non come conseguenze di ipertensione e diabete). Troppo a lungo le donne si sono trovate in estrema difficoltà nel farsi anche solo diagnosticare problemi cardiovascolari.

Come racconta la giornalista Jennifer Billock alla BBC, le ci sono voluti ben 9 anni per la sua diagnosi, dopo che per tutto questo tempo le aritmie del suo cuore venivano chiamate “attacchi d’ansia” e curate con lo Xanax.

Proteggere la gravidanza?

Tra le motivazioni più menzionate quando si parla di divario nella sperimentazione è che le donne vengono escluse dai test per proteggere la volontà di gravidanza. La volontà, non l’effettiva presenza di un feto.

È ovvio, infatti, che quando si utilizzano delle medicine in via di sperimentazione ci possano essere effetti collaterali.

A riguardo la dottoressa Clara Moerman, dell’università di Amsterdam, vuole chiarire che, benché sia importante voler proteggere l’eventuale volontà di maternità, non tutte le donne in età fertile progettano una gravidanza.

Inoltre, chi gestisce le sperimentazioni potrebbe chiedere alle partecipanti di utilizzare contraccettivi.

Non possiamo, inoltre, non vederci dentro la religiosa credenza che tutte le donne, a discapito di ciò che dicono di volere, abbiano una spinta naturale alla riproduzione.

Le donne che non vogliono figli e che, volontariamente, si metterebbero a disposizione del progresso scientifico (dietro giusta retribuzione) sono lì fuori e probabilmente basta solo cercarle.

Questione economica

La possibilità di gravidanza potrebbe essere una motivazione per la quale le donne non vengono coinvolte in alcune sperimentazioni. Un’altra potrebbe essere perché costano tanto.

Mentre gli uomini hanno un ciclo ormonale abbastanza stabile nel corso di un mese, le donne hanno diversi momenti dovuti al ciclo mestruale.

Questo potrebbe, in alcuni casi, portare alla necessità di prolungare i test clinici con più dispenso di capitali economici e umani.

Questione etica

Mentre negli Stati Uniti, dal 1993, è in vigore una legge che impone agli studi clinici – quelli finanziati dal Governo – un certo grado di inclusione in termini di sesso e etnia. L’Europa fatica ancora.

Nonostante, come abbiamo visto, ci sia una spinta all’equità scientifica, la dottoressa Moerman e la sua collega Joke Haafkens denunciano la mancanza, all’interno dei Comitati etici per la Ricerca (REC) degli stati Europei, di attenzione alla parità di genere nella valutazione dei protocolli di sperimentazione.

«Una valutazione del coinvolgimento equo di uomini e donne negli studi non è richiesta né nella normativa né negli strumenti a supporto delle procedure di valutazione etica», si legge. «Ciò vale anche per l’analisi – specifica a seconda del genere – dei rischi e benefici associati alla partecipazione allo studio».

La rappresentazione delle donne in posti di potere

Le due studiose, inoltre, riconoscono che la mancanza di iniziativa sia dovuta ad una questione di per sé vecchia: la sottorappresentazione delle donne all’interno dei REC.

È evidente che, in alcuni casi, le donne non possono attende che sia l’uomo a patrocinare per la categoria (anche se dovrebbero). A volte per attirare l’attenzione sulle problematiche femminile ci vogliono le donne.

I medici, inoltre, dovrebbero essere i primi a dover e voler combattere il Gender Health Gap, essendo coloro i quali prescrivono medicinali alle donne (di cui, secondo i dati, sarebbero le maggiori consumatrici).

Conclusioni

Il fenomeno del Gender Health Gap penalizza certamente la ricerca stessa, rendendola viziata e non universale oltre che a favore del genere maschile.

Le differenze di genere continuano ad essere portate a galla nella vita di tutti i giorni. Nel lavoro, nella gestione della famiglia, nelle aspettative sociali. Differenze che, di solito, vanno a discapito delle donne.

Nel caso del Gender Health Gap, invece, le differenze che potrebbero aiutare a salvare la vita delle donne non sono prese in considerazione.

Il Gender Health Gap è una vera e propria lesione del diritto alla salute protetto, in Italia, dall’articolo 32 della Costituzione. Un diritto che viene ogni giorno violato.

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