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Parliamo davvero a tuttə? L’inclusione nella lingua italiana

Un processo necessario? Aspetta, sì.

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La lingua italiana è una delle lingue più complesse che esistano, e anche una delle meno inclusive.
A differenza dell’inglese, ad esempio, l’italiano tende a “puntualizzare” ogni cosa, attraverso l’uso delle vocali, degli articoli, dei pronomi. Ma il discorso non è così semplice (appunto).

L’inclusione nella lingua italiana: quando una lingua è inclusiva

La lingua rispecchia i cambiamenti sociali. Negli ultimi anni, soprattutto sui social media, si avverte la necessità di rendere la lingua più inclusiva, segno di una crescente sensibilità comune. Ma cosa si intende esattamente con “linguaggio inclusivo”?

Recentemente si è tornati a parlare tanto delle coppie omogenitoriali e di maternità surrogata. I motivi di ciò sono tanti, tutti politici, per cui proposte di legge e altre azioni similari tentano di mettere un freno a quello che secondo loro è inaccettabile.

La sociolinguista Vera Gheno, nel suo podcast “Amare parole”, ci fa capire in pochi minuti cosa si intende per linguaggio inclusivo, e parte proprio dalla stessa premessa. Le battaglie tra chi è d’accordo con la regolamentazione delle pratiche, oggi vietate in Italia, e chi è della parte opposta, si gioca anche sul lessico che viene utilizzato.

Con “maternità surrogata” oppure GPA, gestazione per altre persone, si fa uso di espressioni denotative, cioè che descrivono una determinata situazione o pratica senza dare un giudizio. Con “utero in affitto” (termine utilizzato dalla parte politica estremamente contraria), invece, si utilizza un’espressione connotativa, ossia connota, esprime un giudizio.

La donna viene ridotta al suo apparato riproduttivo, l’utero appunto; mentre il termine ‘affitto’ rimanda a una mera e squallida transazione economica[1]. È proprio attraverso le connotazioni che si manovrano i bias[2] dell’opinione pubblica. Nel primo caso dell’esempio sopracitato, non vengono attivate reazioni di alcun genere, né positive e né negative.

Nel secondo caso, vengono istigate volontariamente alcune corde del nostro pensiero (poco ragionato), provocando delle reazioni istintive. Le persone sono dotate della possibilità di parlare e questo fa di noi esseri narrati e narranti[3], ciò significa che definiamo noi stessi e gli altri attraverso le parole.

Le narrazioni sono inevitabili e importanti, ma è bene non dimenticare mai che è attraverso le narrazioni che costruiamo la società che ci circonda e che, di narrazione non ce ne è mai una sola, ma sono composte da tanti punti di vista differenti.

L’inclusione nella lingua italiana: tentativi di dare forma a una lingua inclusiva

Binarismo di genere, maschile non marcato, maschile neutro, maschile sovraesteso.
Queste sono alcune delle forme consolidate nella lingua italiana. Non essendo presente un genere neutro, queste abitudini linguistiche sono diventate “comode” e col tempo automatiche.

In questi ultimi anni qualcosa si è smosso, grazie anche alla pervasività dei social media che hanno contribuito a sollevare la questione. Quello che prima nella lingua italiana veniva automatico e passava inosservato, adesso sta diventando inadeguato e passa sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di quelle platee di ascoltatori che non si sentono inclusi.

Al sollevamento della questione, un tentativo un po’ ingenuo, ma apprezzabile, è stato quello di utilizzare la “forma dello sdoppiamento”, indirizzando il messaggio “cari studenti e studentesse”, oppure “cari lavoratori e lavoratrici”. Va da sé che questo approccio diventa ridondante, nonché insufficiente perché di fatto resta superficialmente inclusivo, escludendo tante altre persone.

L’inclusione nella lingua italiana: arriva lo schwa

Lo schwa /ə/ è un nuovo segno linguistico, coniato per rendere più inclusiva la lingua italiana.
È una vocale presente dalla fine dell’800 nell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), ossia il sistema che rappresenta i suoni di tutte le lingue[4].

Si presenta sotto forma di ‘e’ rovesciata e la sua origine è ebraica. Infatti, deriva dalla parola shĕvā, che si traduce con “insignificante”, “nulla”. Proprio grazie alla sua pronuncia, che nell’IPA si trova esattamente al centro, è diventata la vocale perfettamente neutra, utile ad azzerare qualsiasi valore di genere.

Ma come si pronuncia? Il suono che deve essere emesso è molto semplice, tenendo le labbra leggermente aperte e la lingua bassa. In questo modo la parola viene leggermente troncata.
Forse a essere divisiva è proprio la pronuncia, ma solo perché veniamo da un sistema ormai radicatosi nel tempo e, dunque, difficile da abbattere.

Bisogna sicuramente prendere atto della difficoltà “irrazionale” che, anche le persone più propense e aperte, impegnano per abituarsi all’utilizzo si sistemi di lingua più inclusivi. Ma questo è già un sintomo buono di cambiamento, perché lo sappiamo bene: cambiare non è mai semplice. Però quando la strada la conosciamo, sicuramente lo faremo con maggiore coraggio e fiducia.

Scopriremo altre curiosità sull’inclusività della lingua italiana in un articolo successivo.


[1] Vera Gheno, Amare parole, podcast disponibile su Spotify.

[2] Bias cognitivi, possono essere definiti come costrutti fondati, al di fuori di un giudizio critico, su percezioni errate o deformate.

[3] Vera Gheno, Amare parole, podcast disponibile su Spotify.

[4] xMag, Parlare a tuttə o a chiunque? Il linguaggio inclusivo oltre lo schwa, articolo consultabile per intero al link: https://greatpixel.it/il-linguaggio-inclusivo-oltre-lo-schwa/


Autore articolo

Sara Giovannoni

Sara Giovannoni

Redattrice

Copywriter pubblicitario, cinefila, nerd.
 Cerco di vivere la vita sempre con la curiosità e lo stupore di un bambino.
Amo scrivere delle cose che mi appassionano,
ecco perché spero di pubblicare, prima o poi, il mio libro sul Giappone.
 
Intanto keizoku wa chikara nari. 
Se volete, andate a cercare il significato!

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