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Tumore della cervice uterina: intervista a Federica Pede

Una donna che si racconta

Copertina intervista Federica Pede

In un precedente articolo – Gennaio, mese della prevenzione del cancro della cervice uterina – vi avevamo parlato del virus del papilloma umano (HPV, dall’inglese Human Papilloma Virus) e del tumore della cervice uterina o del collo dell’utero, uno dei più frequentemente diagnosticati fra le donne.

Oltre all’iniziativa del Cervical Cancer Awareness Month, ovvero del mese dedicato alla prevenzione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato, infatti, un piano d’intervento su scala globale per il debellamento di questo cancro, con l’obiettivo di raggiungere, auspicabilmente entro il 2030, il 90% di vaccini per le ragazze sotto i 15 anni, il 70% di screening per le donne di età compresa tra i 35 e i 45 anni, e il 90% di trattamenti per le donne a cui è stato già diagnosticato un tumore della cervice uterina.

Per contribuire ulteriormente al maturare di una maggiore consapevolezza, senza la quale, d’altronde, non si potrebbe effettivamente passare dalla teoria alla pratica, abbiamo raccolto, allora, la testimonianza di Federica Pede, una donna colpita dal tumore del collo dell’utero, che ha accettato di raccontarsi anche molto intimamente. Per questo, infatti, la sua è una storia molto importante, nel senso di molto utile a tutti, senza distinzioni di sesso. Non dimentichiamoci, infatti, che il virus del papilloma umano colpisce anche gli uomini e che è sessualmente trasmissibile.

Parola all’intervistata!

Può raccontarci qualcosa di sé e della sua storia?

Mi chiamo Federica Pede, ho quasi 38 anni e sono una donna in pace con se stessa. La mia vita più volte mi ha messo davanti a delle prove che bene o male ho superato. Le cicatrici esterne rispecchiano il dolore fisico che ho vissuto, quelle interne mi hanno ferito di più ma ho imparato a convivere anche con loro. Nei momenti di difficoltà mi ispiro a dei modelli: persone comuni o grandi personalità che hanno vissuto gravi lutti o traumi eppure non si sono lasciate abbattere, anzi hanno tirato fuori il bello che era in loro, la loro forza, e lo hanno messo a disposizione degli altri (se devo fare qualche nome penso ai fondatori della Fondazione Heal, a Bebe Vio, a Frida Kahlo, questi sono solo alcuni…). Sono sposata con un uomo prezioso e sono mamma di una splendida bambina di nome Viola. Lavoro come insegnante di scuola primaria e ho molti interessi: primo tra tutti l’uncinetto, e poi la letteratura, la musica e la danza orientale che in passato ho praticato ma che ultimamente ho messo un po’ da parte, purtroppo. Sono una persona curiosa e mi affascina tutto ciò che è culturalmente diverso da me: cucina, religione, lingua, costumi e usanze di ogni parte del mondo. Allo stesso momento sono una persona riservata e mi piace passare il tempo in famiglia e godere di piccoli piaceri fatti in casa, quando non posso stare immersa nella Natura a vagabondare con la fantasia.

Come ha scoperto di avere un cancro e come ha reagito alla scoperta? Sappiamo che c’è stata sia una prima che una seconda volta… Nella sua reazione, quindi, c’è stata una qualche differenza?

Ho scoperto di avere un cancro pochi giorni dopo aver partorito la mia bambina che ora ha poco più di tre anni. Diventare mamma è un momento particolarmente delicato e ricevere una diagnosi di cancro anche. Quando le due cose coincidono si vive in bilico tra emozioni bellissime e la paura che tutto finisca all’improvviso, si rischia di diventare matti. Guardavo mia figlia e mi commuovevo per il miracolo della vita e per aver avuto la fortuna di poterla stringere tra le braccia; un attimo dopo pensavo che dentro di me cresceva anche la morte e ne ero terrorizzata. Ho provato rabbia, un senso di ingiustizia, di impotenza. Poi ho realizzato che dovevo reagire e piano piano la nebbia nella mente si è fatta meno fitta e, un passo alla volta, ho affrontato tutto, imparando a chiedere aiuto e a delegare agli altri quando non riuscivo a fare qualcosa, indipendentemente da cosa si trattasse. Da soli non possiamo far tutto ed è importante non sentirsi soli. Nessuno è solo.

La seconda volta pochi mesi fa: si va in follow up quando la malattia non c’è più, ma sappiamo benissimo che può tornare. Fa parte del gioco. Quando dagli ultimi controlli c’era qualcosa che non andava nei valori del sangue ho iniziato a lavorare su me stessa per arrivare pronta al momento in cui avrei dovuto ricominciare e lo spirito è sempre lo stesso: mi fido della medicina e sono fiduciosa, affronto una cosa alla volta e cerco di farmi forza. Rispetto alla prima volta l’umore è un po’ basso, inutile negarlo. Questo perché oltre alle preoccupazioni legate alla malattia ci sono quelle legate al rischio di un contagio, che potrebbe diventare problematico per un organismo immunodepresso come il mio, perciò ho dovuto limitare fortemente le frequentazioni con parenti e amici.

Come inizialmente ha deciso di affrontare e come nel corso del tempo ha effettivamente affrontato il tutto?

Quando ho ricevuto la diagnosi della mia malattia, dopo una confusione iniziale, mi sono ripromessa di affrontarla di petto e così è stato. Diciamo che la situazione fin da subito non è sembrata particolarmente grave: i medici erano ottimisti e io mi sono fidata di loro e a loro mi sono completamente affidata. Avrei dovuto affrontare l’intervento e le terapie, ma presto si sarebbe risolto e sapendo questo sono stata abbastanza serena anche io. Certo è che ho avuto anche giornate no, soprattutto quando non ero in grado di badare a mia figlia da sola. Mi sono sentita una mamma imperfetta, ma col tempo è svanita questa errata percezione che avevo. Quello che non svanisce è il dispiacere per non poterle dare dei fratelli o sorelle, almeno non biologici. L’adozione è un’opzione che io e mio marito teniamo in considerazione.

C’è qualcosa in particolare che lei ha fatto per se stessa, che ha ritenuto giovarle particolarmente e che pensa possa essere utile dare come suggerimento a qualcun altro?

Ho cercato, per quanto possibile, di vivere normalmente: il cancro è solo una parte della mia vita, non il centro. In questi anni ho continuato a lavorare regolarmente (ad eccezione di questi ultimi due mesi, per scongiurare un contagio da Coronavirus) e non ho mai smesso di studiare: ho preso una laurea triennale e mancano pochi esami per la specialistica; seguo corsi di formazione per avere più competenze professionali; sto per completare il primo livello di Lingua Italiana dei Segni, sogno che coltivavo da diversi anni. Avere la mente impegnata e vedere che i risultati arrivano nonostante la diagnosi aiuta molto. Questo è quanto mi sento di suggerire a chi dovesse un giorno trovarsi nella mia stessa situazione: far sì che il tempo tra una terapia e l’altra, un intervento e una visita di controllo, sia tempo di qualità, in cui imparare cose nuove o creare, colorare, riscoprire un hobby, finire di leggere un libro lasciato a metà, insomma non passare le giornate a letto disperandosi… al massimo sul divano a guardare qualche serie divertente!

Che tipo di supporto ha ricevuto, invece, dagli altri, ovvero dai suoi affetti, da eventuali associazioni e dalle istituzioni?

I miei familiari sono stati degli eroi per me. Ognuno di loro ha avuto un ruolo importante in questo percorso e sono stati le braccia che mi hanno sostenuta nei momenti più difficili. Mio marito Giacomo si è fatto in quattro per starmi vicino, nonostante i suoi turni di lavoro, ed è l’unico, insieme a mio fratello Francesco, che non mi ha mai visto con occhi diversi a causa della malattia: abbiamo mantenuto anche il ritmo dei litigi per far essere tutto il più normale possibile ed ha continuato ad amarmi anche quando ero calva e gonfia per i farmaci. Lui e mia figlia sono stati la mia vera forza. I miei genitori ci hanno aiutati come hanno potuto. Una delle cose più difficili in assoluto per me è stato comunicare loro la mia malattia: mi sembravano troppo fragili per affrontare anche questo, ma si sono rimboccati le maniche e mi hanno trattato di nuovo come una bambina, coccolandomi e non facendomi mancare nulla. Anche la famiglia di mio marito ci ha aiutato moltissimo e sono grata per tutto quello che hanno fatto e fanno ancora. Al di fuori della famiglia, sono stata in contatto con poche persone: gli amici di sempre mi hanno fatto sentire la loro vicinanza, quelli nuovi e i colleghi mi hanno sempre aiutato a mettermi in condizione di poter organizzare tutto al meglio. Le istituzioni? Ho avuto delle agevolazioni per un periodo. Il sostegno economico è previsto solo per chi ha un reddito particolarmente basso. Io lavoro, perciò non ne ho diritto, ma c’è da dire che molti farmaci o integratori non sono convenzionati e numerose visite vanno fatte privatamente ad un costo elevato per rientrare nei tempi richiesti e non nascondo che un aiuto da parte dello Stato sarebbe comunque gradito

Si è sentita in qualche modo socialmente stigmatizzata?

Lo stigma per eccellenza, per i malati oncologici, è la perdita dei capelli. Questo segno ci rende vulnerabili perché mostra chiaramente a tutti cosa stiamo vivendo e, per la maggior parte delle pazienti, costituisce uno dei problemi più difficili da affrontare: sentirsi scoperte, nude, davanti alla malattia e perdere un importante aspetto della femminilità. Quando è successo a me, dopo il primo ciclo di chemioterapia, prima della caduta, ho dato un bel taglio ai miei lunghi capelli per abituarmi alla nuova immagine che avrei avuto per qualche mese, poi ho chiesto a mio marito di rasarmi perché volevo velocizzare la cosa. Spesso il nostro cervello tende a far dimenticare gli eventi dolorosi, ma questo per me è stato uno dei momenti cruciali, perciò il ricordo è vivido: è stato proprio durante questa sorta di rito che finalmente ho pianto, liberandomi dalla confusione e dalla rabbia che provavo. Insieme ai capelli ho lasciato andar via le emozioni che stavo trattenendo perché mi facevano paura e poi è andata meglio. Non ho utilizzato parrucche perché non ho mai provato vergogna per cosa mi è successo e quindi non ho sentito il bisogno di camuffare la mia condizione. Capisco, però, che non tutte le pazienti riescano a vedersi calve e sono grata che ci siano tante donatrici, associazioni che si occupano di raccogliere ciocche di capelli per farne parrucche e contributi da parte delle istituzioni, perché chi ne sente la necessità ha il diritto di averne una, dato che l’aspetto psicologico è fondamentale per la guarigione, oltre alle terapie.

Per rispondere alla domanda direi che non mi sono mai sentita socialmente stigmatizzata, ma non nascondo di essermi sentita spesso oggetto di sguardi compassionevoli e che quelli proprio non li tollero, perché non è di questo che abbiamo bisogno, ma di normalità.

Come ha interferito il Coronavirus con la sua vita e con la sua terapia?

In questo sono stata fortunata: sono in cura presso l’Ospedale Gemelli di Roma e in tutto questo periodo, non mi è mai stata rinviata una visita o altro. Abbiamo saputo della recidiva lo scorso dicembre e in breve tempo ho subìto l’intervento e ho iniziato le terapie adiuvanti. La cosa spiacevole è dover affrontare tutto da sola all’interno della struttura perché gli accompagnatori non sono ammessi se non ci sono particolari necessità, ma questo vale per tutto il territorio nazionale.

A partire dalla sua esperienza, ma al di là della sua persona, ritiene che si faccia buona informazione/prevenzione o, invece, che bisognerebbe migliorare in questo senso? E se sì, perché, come?

Riguardo la prevenzione credo che si faccia un lavoro abbastanza buono da parte delle istituzioni. Bisogna ricordare che quanto è fondamentale: i fattori di rischio aumentano sempre più, perciò non si può pensare di essere immuni. Una volta l’anno, come si fa per le vacanze dopo mesi di lavoro, bisogna trovare del tempo da dedicare a se stessi, per la propria salute. Se i controlli sono regolari, qualsiasi malattia può essere presa in tempo e si hanno maggiori probabilità di guarire. Esistono campagne di prevenzione, giornate e mesi dedicati ai vari tipi di tumori, ma penso che questi eventi non siano sufficienti perché troppo spesso sento storie di persone che, per paura di scoprire notizie spiacevoli, evitano di fare i controlli e questo è inaccettabile! Si ha paura delle terapie. Si ha paura di chiamarlo con il suo nome, il cancro. Si parla di “quel brutto male”, “il male del secolo”, “battaglia personale”. Non mi pare che questi giri di parole si facciano per altre malattie. C’è bisogno di sconfiggerla questa paura, di parlare di cancro apertamente, senza vergogna, perché la paura impedisce di affrontare la vita con lucidità. È una malattia che può colpire chiunque, perciò non si la può ignorare fino all’ultimo momento per poi farsi trovare impreparati. In sostanza, bisognerebbe fare più informazione attraverso tutti i canali possibili, per arrivare a tutti e in maniera chiara ed esaustiva.

C’è, come dire, un lato positivo, in tutto il brutto della sua situazione, è riuscita a trovare qualcosa di bello? C’è un qualche insegnamento che ha tratto, per lei e per gli altri, dalla sua esperienza?

Ci sono diversi lati positivi! La malattia ti cambia, stravolge i tuoi programmi e ti invita a non farne troppi. Restituisce le giuste priorità alle persone, ai luoghi e agli eventi della tua vita e ti insegna a vivere pienamente ogni istante come un’occasione irripetibile. Inoltre, l’aver provato tanto dolore ti rende inevitabilmente più sensibile: sai cosa si prova e vuoi evitarlo agli altri, perciò, piano piano, impari a pesare attentamente tutto quello che dici e che fai.

Autore articolo

Federica Fiorletta - autore

Federica Fiorletta

Redattrice

Laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria. Anglista e francesista, balzo dai grandi classici ottocenteschi alle letterature ultracontemporanee. Il mio posto nel mondo è il mondo, viaggio – con il corpo e/o con la mente – e vivo per scrivere.

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